...nel mio mondo il cemento più saldo è quello disarmato.

lunedì 18 gennaio 2010

Franco è morto
























Franco è morto.
Mica male come inizio, bello forte… sì, così va bene.
Franco è morto, e ogni volta che pronuncio il suo nome, anche solo con le labbra della mente, tutti i ricordi di lui si riversano nel presente.
Tutti insieme, in una velocissima coda, tanto vicini che si urtano l’un l’altro, come i carrelli del supermercato spinti dai pakistani.
Come fosse il download di un backup… che parole! Anche solo il suono che hanno, è una valida ragione per non usarle… barbarismi di barbari del cazzo… i francesi mica dicono computer, dicono ordinateur, perché noi non diciamo calcolatore? Certo i francesi…
Franco è morto, ed è come se ogni volta tentassi disperatamente, con i ricordi, di tornare al punto di ripristino.
Impossibile ripristinare.
Franco è morto, ma io non ero lì.
Ricordo la telefonata di mio padre: “Go na brota notissia de dat, le mort Franco - Quale franco? – El to amico Franco”.
Franco è morto. “Quale Franco?” La puerilità di una domanda di uno che non è mai cresciuto e che non crescerà mai, di uno che cerca di vincere la morte facendo finta di non sapere quale Franco, di uno che cerca di vincere la morte con la domanda più stupida del mondo, con qualche stupido suono umano, col nulla.
Impossibile ripristinare.
Sono salito in macchina e ho fatto lo stesso percorso, dalla città alla valle, che io e Franco abbiamo fatto centinaia di volte, moltissime insieme, in macchina, in vespa, in treno.
All’ingresso dell’obitorio, poco dietro di me, vedo Alessandro che è appena arrivato e aspetto che mi raggiunga. Mi abbraccia e mi dice fra le lacrime: “Ma che cazzo mi ha fatto su?” Come se ci avesse volontariamente giocato un brutto tiro, come se non si rendesse conto, Franco, della gravità di quello che ci ha fatto… a noi.. perché la morte colpisce i vivi, mica i morti.
E’ il dolore che ci fa dire certe cose? L’egoismo? O l’affetto?
Non ricordo bene il suo volto nella bara, ricordo solo sulle guance piccole ragnatele di vene violacee, forse per incuria degli addetti alle onoranze funebri, che non lo facevano sembrare lui… e, infatti, non era lui, non era già più lui.
Ricordo il pianto che non si fermava o che non volevo fermare, come se, fermando il pianto fosse venuto meno il mio risentimento verso l’ineluttabilità della fine, la mia assurda resistenza, che è la mia incapacità alla comprensione della morte.
Ricordo proprio questo come dolore più grande, l’incapacità a capire; la morte è la negazione stessa della vita in quanto senso delle cose, è il non senso, il non esistere, l’essenza della negazione, il male sordo, cieco, muto, decerebrato, inconsapevole, incosciente, antimateria, antitutto, come un mostruoso buco nero la cui volontarietà nel far del male sarebbe già una consolazione, invece no! Moralmente neutro, per questo di indicibile violenza.
Franco è morto, e Roberta adesso come fa? Come fanno sua madre, suo padre, suo fratello e i suoi nipoti? E come facciamo adesso tutti noi, suoi amici?
Ricordo il pianto di sua nipote, bellissima nel dolore.
Lo zio Franco è morto, il meraviglioso zio Franco, il migliore zio possibile, e per chi non lo ha conosciuto è difficile capire che per la nipote, in quel momento, è morto Dio, almeno il Dio giusto ed equo che ci hanno raccontato.
Lei lo adorava, Franco piaceva subito a tutti; la sua vociona, la risata, il sorriso, il suo umorismo, il suo senso dell’amicizia, la sua sincerità, il suo coraggio…
Non posso credere che si sia perso tutto, i suoi ricordi, quelli della naja da alpino, quelli di scuola, l’amore per la montagna, per le cose semplici del paese… Certo alcuni non sono persi, sono dentro di me, dentro tutti quelli che l’hanno conosciuto, ma sono i nostri ricordi, non i suoi, i suoi sono persi, per sempre.
Non posso credere di averlo perso. Sì, è la parola giusta, come se avessi perso per strada un pezzo di me, un pezzo importante, un occhio, un braccio, una gamba, però dentro, che non si vede, che sembri sempre intero, come prima, visto da fuori, dagli altri. Ma non sono più come prima.
Mica si può più, salire in montagna in piena notte con la sua Prinz verde, ascoltando i Talk Talk, mica si può più, passare la notte sul prato con la bottiglia di caffè alla grappa guardando sgomenti miliardi di stelle davanti a noi, mica si può più, aspettare l’alba annunciata da un uncinetto di rugiada sull’erba. Mica si può più, e non si può più nemmeno salire insieme alla croce, sulla vetta, come avevamo progettato molte volte, non si può più.
Impossibile ripristinare.
La settimana prima avevo incrociato Franco in montagna, dopo un bel po’ che non ci vedevamo.
Era sceso dall’Ape che usava in paese e mi aveva salutato in modo particolare, stringendomi la mano con entrambe le sue e dicendomi: “Sai che mi fa piacere un casino vederti!”.
Una dimostrazione di affetto così palese era inusuale tra noi “uomini”, tanto che avrei potuto rispondergli “Mavacagare” e giù a ridere come asini tutti e due.
Invece ne rimasi commosso e risposi: “Anche a me, tanto”.
Sì, vabbè, si dicono sempre queste cose, quando uno muore ecco che saltano fuori tutti i presagi e le cazzate varie, per carità. A me interessa solo quel che è successo.
Mi basterebbe tornare anche solo a quel momento, e dirgli di più, dirgli: “Sì cazzo, anche a me mi fa piacere Franco” E dirgli che gli voglio bene, dirgli le cose che gli “uomini” non si dicono, e abbracciarlo e non lasciarlo andare via più, non lasciarlo andare incontro alla morte dalla bocca storpia e nera, bavosa e demente, andare alle baite, sul monte e non tornare mai più giù.
…che non è mai cresciuto e che non crescerà mai.
Franco è morto, senza nessun preavviso, se non un bruciore di stomaco, nemmeno troppo forte.
Come se ci dovesse essere il preavviso, come se morire così, a metà strada, fosse scorretto.
Franco è morto, tra le braccia di Roberta, le braccia della stessa mia disperata impotenza, nella sua casa in valle; è sepolto nel cimitero del paese e guarda per sempre le montagne di fronte, le bellissime montagne.
Ogni tanto vado a trovarlo, e le guardiamo insieme le montagne, bellissime montagne, e faccio quelle cose che fanno in tanti, gli parlo, porto una fotografia di noi con Gabriella e la Prinz parcheggiata accanto alla strada del monte, gli faccio ascoltare ancora i Talk Talk… Renée, Renée, Renée, Renée, baby how the weeks fade, baby how the streets change…
“Lo sai che gli ultimi due dischi che hanno fatto sono diversissimi, ma devi sentire che roba, fantastici!”.
Ecco cosa facevano quelle persone che vedevo da piccolo, quando al cimitero mi ci portavano per forza!
Stupidi uomini.
Franco è morto, due anni fa.
Non adesso, mentre piango davanti al calcolatore o come cazzo si chiama questa macchina di merda, inutile, come quasi tutto quello di cui ci circondiamo, cose di cui siamo schiavi, oggetti di esorcismo alla morte, che saranno certo utilissimi quando ci presenteremo a lei, stupide e stupite figurine col nostro carico di allegati e cd-rom.
Non un’ora fa, mentre camminavo con gli occhi lucidi per le strade qui intorno e la gente mi guardava come si guarda uno da compatire, uno che “chissà cosa cazzo cià quello lì?”.
E’ morto prima, tante volte, ogni volta quando, non ricordo con quale percorso, arrivo al suo nome e ricomincia tutto il riversamento dati, come un rito, per non dimenticare o per sopportare l’insopportabile.



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lunedì 4 gennaio 2010

fuoco flauto n.9 - Il senso della vita



















fuoco flauto n.9


Il senso della vita


Tra il colonnato della moschea, vicino al Mihrab, cammina Averroè, aprendosi il passo fra la moltitudine dei suoi discepoli che lo tormentano con domande.

Voci: Maestro Ibn Rushd! Maestro Ibn Rushd! ...

Averroè: … la medicina, l’astronomia e tutte le altre scienze … Mi chiedete sempre che vi spieghi ciò che ha detto Aristotele riguardo al sapere delle cose terrene, però non mi chiedete mai circa le questioni ultime: da dove veniamo, dove andiamo, la creazione e soprattutto la finalità ed il senso della vita e della storia.

Discepolo: Maestro, oggi …

Averroè: Oggi, come sempre, la nostra filosofia non servirebbe a niente se non si sapessero collegare queste tre cose che io ho cercato di riunire nel mio libro “L’armonia tra scienza e religione”. Una scienza fondata sull’esperienza e sulla logica, necessaria per scoprire le cause dei fenomeni … Una sapienza in grado di riflettere sulla finalità di tutta la ricerca scientifica, al fine di contribuire a rendere la nostra vita più bella … una rivelazione quella del nostro Corano, dato che solo attraverso la rivelazione ci sarà permesso conoscere i fini ultimi della nostra vita e della storia.

Una donna: E per noi, donne … ?

Averroè: Le donne hanno gli stessi fini ultimi degli uomini … Il Corano fa distinzione solo fra quegli uomini e quelle donne che cercano la legge di Dio e quelli che non si preoccupano di Essa: Non c’è nessun’altra gerarchia fra gli esseri umani … Nonostante voi uomini consideriate le donne come piante, che non si cercano che per i loro frutti, per la procreazione; per il resto le convertite in serve. Questi sono i vostri costumi che non hanno niente a che vedere con l’Islam.

Discepolo: E i nostri Re? …

Averroè: Il profeta ci ha insegnato che non esiste guerra più santa che dire la verità ad un potente ingiusto. Il tiranno è il più schiavo degli uomini, è dato alle proprie passioni dai suoi stessi cortigiani, ed ai propri terrori per paura del suo stesso popolo.

Discepolo: Quale sarà allora la società migliore?

Averroè: Quella in cui si daranno ad ogni donna, ogni bambino e ogni uomo i mezzi per sviluppare tutte le possibilità che Dio ha loro conferito.

Discepolo: E quale potere potrà stabilirla?

Averroé: Non si tratta certo di una teocrazia come quella dei cristiani d’Europa, di un potere di religiosi. Dio – dice il Corano – ha soffiato nell’uomo il Suo spirito. Facciamolo vivere realmente in ogni uomo!

Discepolo: Quali saranno le condizioni dettate da una tale società?

Averroé: Sarà una società libera, e per tanto gradita a Dio se nessuno agirà con timore verso il proprio principe, né per paura dell’inferno, e nemmeno per il desiderio di una ricompensa, di una cortigiana o per il paradiso. Quando nessuno dirà mai “questo è mio”.

Discepolo: Maestro dicci altre cose …

Averroé: Ora basta con le domande. In primo luogo, io non sono un maestro. Dio è l’unico maestro, ed il Suo insegnamento più frequente nel Corano è che bisogna fare lo sforzo di riflettere da soli.

Dalla guida alla “Torre de la Calahorra” Fondacion Roger Garaudy – Cordoba




Averroè, il cui nome arabo era Abū l-Walīd Muhammad ibn Ahmad Muhammad ibn Rushd, diventato nel Medioevo Aven Roshd e infine Averroes (Cordova, 1126 -  Marrakesh, 10 dicembre 1198), è stato un filosofo … http://it.wikipedia.org/wiki/Averroé

Da Wikipedia, l’enciclopedia libera.




Note

Nella storia dell’umanità vi sono stati momenti e persone che hanno acceso fuochi flauti, la cui luce e musica ancora ci guida. Il momento, intorno al 1150, è quello magico della condivisione pacifica e fruttuosa di una parte dell’attuale Spagna, l’Andalusia (Al-Andalus), da parte di Ebrei, Musulmani e Cristiani, e la persona è Ibn Rushd, faro luminoso conosciuto nell’Europa latina come Averroé. Filosofo, teologo, giurista, traduttore, medico, astronomo, fisico, matematico, un personaggio straordinario che ha fatto dell’integrazione tra diverse culture, religioni e discipline, uno dei punti di forza del suo pensiero. Mentre in Al-Andalus fiorivano arte, commercio, scienza e religione, l’Europa cristiana era immersa nel buio della ragione, che sarebbe poi sfociato in uno dei periodi più vergognosi della storia umana: la santa inquisizione. Gli estremismi, la storia lo insegna puntualmente, non hanno portato che sciagure e disgrazie, al contrario, la tolleranza e l’apertura hanno sempre migliorato l’umanità spingendola verso Dio o verso le stelle. Eppure il rifiuto del diverso e l’arroccamento sui propri privilegi, sembrano essere ancora i migliori strumenti di consenso; lo sfruttamento della paura come sistema di potere.
Oggi nel nostro paese abbondano pecore e pastori, quello che manca sono i cittadini pastori semplicemente di se stessi; l’esortazione finale di Averroé, è magnifica, senza tempo.
La scorsa primavera a Cordoba, ho passeggiato anch’io negli stessi posti dove, seguito dai suoi discepoli, camminava Averroè, e mi sono sentito anch’io suo allievo. Per un istante, tra un colonnato arabo e una siepe di mirto, ho respirato la sua stessa aria.


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